Netto o calpestabile?

Il regolamento del campanile. 

8057 Comuni e 8057 (più o meno) regolamenti edilizi comunali. Se questo è il Paese dei campanili, ogni campanile ha il proprio regolamento. E pazienza se tra questi ottomila Comuni ce ne sono un migliaio (più del 12%, per oltre 21 milioni di persone) nei quali si è intervenuti (vedi Rapporto ONRE 2013 di Legambiente) per introdurre nuovi criteri e obiettivi energetico-ambientali rispetto alla normativa in vigore. Resta il fatto che qui la burocrazia italiana produce uno dei suoi massini paradossi. Se ne lamenta Sergio Rizzo, nell’articolo del Corriere “A ogni città il suo vocabolario: norme edilizie, invincibile Babele” del 05.09.2014, che riporto di seguito integralmente.

Per questo motivo la proposta arrivata direttamente dal Consiglio Nazionale degli Architetti – un unico regolamento (!) – che era stata fatta propria subito dalle prime bozze di Palazzo Chigi nel Decreto Legge “Sblocca Italia” rappresentava una svolta epocale. Ma il decreto è stato sfoltito da 100 a 51 articoli (ultima versione) e la norma dirompente è sparita. La tesi di Rizzo è che su questo proliferare di regolamenti poggia il sistema degli apparati burocratici locali così come una folla di consulenti che cercano di tradurre queste norme per la comprensione dei clienti. Se ci fosse un regolamento unico, una marea di tecnici comunali si ritroverebbe senza lavoro e a ruota i suddetti consulenti. Un’ecatombe.

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Cavareno, Unione dei Comuni dell’Alta Anaunia (TN)

Ma un regolamento edilizio unico (o un gruppo limitato di regolamenti) sarebbe possibile. E’ la strada ad esempio intrapresa da moltissime “Unioni di Comuni”. Un’Unione di Comuni è un ente territoriale locale, disciplinato dal D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, il “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali“, costituito da due o più Comuni per l’esercizio congiunto di funzioni a questo delegate. Il territorio coincide con quello dei Comuni membri; l’Unione è dotata di autonomia statutaria nell’ambito dei principi fissati dalla Costituzione e dalle norme comunitarie, statali e regionali. In Italia ci sono attualmente più di 400 Unioni di Comuni. Se almeno queste si dotassero di un regolamento edilizio condiviso, sarebbe già qualcosa (meglio 400 che 8000 …).

Nell’ambito del progetto Green Communities, ad esempio avevo analizzato l’Unione dei Comuni della Bassa Romagna (Lugo e altri otto paesi) proponendola come modello proprio per l’approvazione di un unico regolamento edilizio, tra l’altro (soprattutto …) improntato a criteri di sostenibilità (efficienza energetica, scelta dei materiali, ecc.). Dal novembre 2013 c’è anche l’Unione dei Comuni dell’Alta Val di Non, ad esempio (un sorpasso a destra delle Comunità di Valle? …).

Certo, ipotizzando un regolamento unico, cambiano molto le condizioni locali, da Nord a Sud, ma sono assolutamente schematizzabili. Pensiamo alle fasce climatiche, sono sei in Italia, secondo il D.P.R. n. 412 del 26 agosto 1993 , da A a F, a seconda del periodo di funzionamento degli impianti di riscaldamento. Negli USA (che sono estesi 33 volte l’Italia) le zone climatiche, secondo le norme ASHRAE 90.1, sono otto (Miami è nella zona 1, Anchorage nella 8) declinate secondo 3 tipi di clima A (umido), B (secco), and C (marin0) – semplice, no? Non solo, ma la certificazione LEED, ad esempio, tiene conto delle specificità delle problematiche ambientali di una zona geografica rispetto ad un’altra. L’intento è quello di fornire un incentivo per il conseguimento di crediti che affrontano prorità geograficamente specifiche legate all’ambiente, all’equità sociale e alla salute pubblica. Trasferito il concetto in Italia, è come se premiassimo tutte quelle soluzioni progettuali che favoriscono il risparmio dell’acqua, se l’edificio è ubicato in Puglia o quelle che enfatizzano il risparmio energetico, se in Alto Adige. Insomma, criteri e buone pratiche da utilizzare ce ne sono già senza doverli inventare; manca la buona volontà?

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Green roofs

Ecco l’articolo di Sergio Rizzo.

Un problema «formale» l’ha definito il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Quale sia la «formalità» così decisiva da far saltare la semplificazione più importante contenuta nel decreto «sblocca Italia», non è dato sapere. L’unica cosa certa è che la norma con la quale si stabiliva che gli 8 mila Comuni italiani avrebbero avuto un regolamento edilizio uguale per tutti è misteriosamente scomparsa nella notte fra lunedì e martedì. Evaporata, volatilizzata, dissolta. Lupi dice che se ne parlerà in sede di conversione del decreto nel Parlamento. Oppure in un altro provvedimento.

Che cosa è successo? Lupi fa capire che ci potrebbe essere stato il solito problema della Ragioneria: per una norma che non ha costi e che farebbe perfino risparmiare. C’è invece chi dice che gli uffici (quali uffici?) avrebbero sollevato un problema di conflitto con le amministrazioni locali, visto che la materia è di competenza regionale. E non manca chi suggerisce che non avendo una norma del genere carattere di urgenza, non si può adottare per decreto: come se non fosse urgente dare a tutti gli italiani la possibilità di avere un permesso edilizio al massimo in 110 giorni, la media europea, anziché il 239, la media italiana.

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Perché questo sarebbe successo se quella norma, sulla quale tutti (ma forse solo apparentemente) si erano dichiarati d’accordo, fosse sopravvissuta. Per quel malinteso senso dell’autonomia che sconfina nel grottesco, è successo che ogni Comune si è fatto un regolamento proprio, diverso da quello del paese o della città vicina. Si comincia dall’elemento più banale: il vocabolario. La stessa cosa si può chiamare con termini differenti. La superficie di un’abitazione che a Milano si chiama «pavimentabile», altrove è «calpestabile», oppure «netta». Qualcuno arriva perfino a definire maniacalmente certe disposizioni igieniche, come il bagno che per legge (per legge!) dev’esser piastrellato fino a una certa altezza, o «rivestito di materiale lavabile». Il guazzabuglio di norme comunali è talmente complicato che nello stesso ufficio tecnico municipale c’è chi arriva a interpretare una regola in modo diverso dal suo collega di stanza. Quando addirittura, come nel caso di Roma, ci sono regole diverse da una circoscrizione all’altra.

Prevedibilissime e devastanti le conseguenze. Una burocrazia asfissiante e talvolta senza alcuna certezza, tanto è soggettiva l’interpretazione delle regole. Con tempi indefiniti e costi allucinanti a carico dei cittadini. Che per ogni più piccolo intervento sono costretti a rivolgersi a specialisti e azzeccagarbugli: gli unici capaci a districarsi nella giungla delle norme. Per non parlare del problema di alcuni diritti fondamentali dei cittadini, diseguali da città a città. Si potrebbe aggiungere che questo sistema rappresenta un incentivo formidabile per la corruzione, il che già basterebbe per cambiarlo radicalmente.

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Inevitabile il sospetto che siano proprio questi i motivi che hanno finora impedito di metterci mano. Gli apparati burocratici locali sarebbero così felici di perdere tutto questo potere di tracciare norme e regolamenti che viaggiano dagli uffici comunali a quelli regionali in un vortice infinito, senza considerare la quantità di personale che si ritroverebbe improvvisamente senza occupazione? E i consulenti che prosperano grazie alla complicazione dei regolamenti comunali, pensate che accetterebbero volentieri di vedersi privare di una fonte di reddito così generosa?
Per ora si deve prendere atto come il governo di Matteo Renzi, che al suo debutto aveva dichiarato guerra alla burocrazia promettendo semplificazioni a tappeto, ha spedito un’altra palla in tribuna. Del regolamento edilizio comunale unico ne parleranno forse nella legge di Stabilità, se qualche temerario non oserà riproporla in Parlamento. Insomma, campa cavallo. Mentre nel decreto «sblocca Italia» la norma a dir poco controversa che consentirà la proroga delle concessioni autostradali non ha subito al contrario alcun incidente di percorso nelle segrete delle burocrazie ministeriali. Guarda un po’…

[Sergio Rizzo, Corriere della Sera 05.09.2014]

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