Parbuckling.

Alla fine ce l’abbiamo fatta. Dico ce l’abbiamo perché il recupero della Costa Concordia è un’operazione di salvezza nazionale che abbiano tutti sentito nostra, così come abbiamo vissuto come nostra la vergogna dell’evento all’inizio della storia. Non fatevi ingannare dai proclami ‘stranieri’, è vero che l’operazione è stata condotta da un consorzio tra un’azienda americana capogruppo (Titan) e una italiana (Micoperi) e che il senior salvage master (il responsabile in capo del progetto) è un sudafricano, ma buona parte dello staff di project management è italiano, così come molte delle società di off-shore e dei cantieri fuori opera che hanno dato supporto all’impresa con quantitativi da capogiro di attrezzature e materiali. Il progetto non è ancora concluso, bisogna muovere la nave verso un porto (probabilmente Piombino) per il definitivo smantellamento, ma rimettere in galleggiamento la nave era la vera scommessa e questa è stata vinta. E con un risultato che non era assolutamente scontato, dato che il contratto d’opera che impegnava le due società era del tipo ‘best endeavour’, ovvero ‘noi [aziende] facciamo del nostro meglio all’attuale stato dell’arte del know-how e delle tecnologie, ma non garantiamo il risultato e Voi [armatore] ci pagate comunque per tutte le spese che abbiamo sostenuto’.

Quella che era la metafora di un’Italia inaffidabile e in difficoltà, con personaggi e ruoli da tragedia greca (il comandante Schettino, il capitano De Falco) si è trasformata in una storia di salvezza, con ma un dispendio terribile di vite umane e di risorse (è singolare il fatto che il recupero della nave sia costato tanto quanto la sua costruzione, 500 milioni di dollari, più o meno). Ma, se da una storia come questa dobbiamo anche imparare, un paio di riflessioni mi vengono in mente.

L’errore è umano?

2013_09_23 immagine 02Nel caso di Schettino, sarà ovviamente la magistratura a decidere, anche se appare conclamata la responsabilità (individuale più che oggettiva) in questo caso. In altri casi di disastri analoghi la responsabilità personale non è così chiara. Ne fa un’interessante analisi, sviluppando una vera e propria teoria degli errori organizzativi, Marco Catino, dell’Istituto di Ricerca intervento sui Sistemi Organizzativi (IRSO) di Milano, docente di sociologia delle professioni e dell’impresa presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca, nel bel libro del 2002 ‘Da Chernobyl a Linate. Incidenti tecnologici o errori organizzativi’. Il testo elabora una teoria organizzativa degli incidenti, raccontando alcuni casi studio: incidenti nucleari (Three Mile Island, Cherbobyl), incidenti nello spazio (Columbia, Challenger), incidenti ferroviari, incidenti aerei (Tenerife, Linate), e altri casi specifici (interessante è il caso del ‘fuoco amico’, in un intervento di una squadra di vigili del fuoco). Il volume andrebbe purtroppo aggiornato perché nel frattempo abbiamo avuto ad esempio Fukushima e altri disastri e, ovviamente, la Costa Concordia. Le conclusioni confermano la tesi che gli incidenti tecnologici sono innanzitutto l’esito di errori organizzativi. (Vedi anche il libro ‘La strategia del margine’ e l’interessante sito airmanshiponline.com). Ciò non vuol dire che non esista l’errore umano, ma che le organizzazioni nel loro funzionamento possono presentare alcune criticità fatali attinenti a

  1. falle latenti, difetti di funzionamento e una situazione gestionale della sicurezza superficiale senza coordinamento tra gli enti preposti alla sicurezza stessa;
  2. l’incapacità dei diversi attori coinvolti nel prendere atto dei segnali di pericolo e dello stato carente di sicurezza del sistema;
  3. le relazioni tra la rete di attori e i rapporti non chiari tra organizzazioni controllanti e organizzazioni controllate (‘reticolarità’ dell’incidente);
  4. l’affidabilità, ovvero la debolezza delle connessioni tra le diverse parti del sistema. Le persone, anche quelle più diligenti e attente, se lavorano in solitudine possono commettere degli errori, prima o poi.

A mio avviso si tratta comunque in definitiva ancora di errori umani, nel senso in cui sono gli esseri umani a guidare, organizzare e gestire le organizzazioni. Tramonta definitivamente l’idea dell’errore ‘tecnico’. Ricordate quando i media parlano di ‘cedimento strutturale’ o concetti simili? Ma chi è responsabile della previsione, del controllo, della verifica, della gestione degli aspetti tecnici? È l’organizzazione (e quindi, ancora, l’essere umano) che padroneggia la tecnologia. È l’organizzazione che deve essere in grado di valutare, quantificare e compensare il rischio connesso. E ciò anche oltre il sistema di controlli e responsabilità messo in atto dall’organizzazione stessa. Esemplare (purtroppo) il caso del Challenger dove l’incidente è occorso nonostante il fatto che tutte le 2013_09_23 immagine 04procedure di controllo prima del lancio fossero state scrupolosamente rispettate. La tragedia è avvenuta per un guasto, dovuto alle basse temperature, a una guarnizione O-ring, nel segmento inferiore del razzo a propellente solido.

Sulla teoria degli errori interessante è anche il libro ‘Gli errori degli ingegneri’ di Henry Petroski (2000).

La trappola dello sviluppo insostenibile.

ansa - manila alfano - CROCIERE: COSTA RIPARTE DA 'FASCINOSA', NAVE TRANSITA LUNGO CANALE A VENEZIA
Foto ANSA

Ma la storia della Concordia impone anche un’altra riflessione, provocata anche dalla forte discussione in atto in questi giorni sugli inaccettabili passaggi giornalieri delle grandi navi da crociera davanti a Venezia, nel canale della Giudecca. (L’arroganza di questi mostri è uno sfregio all’umanità – dice Adriano Celentano. Sabato 21 settembre dodici grandi navi in un giorno!). In questo senso l’incidente della Concordia appare come la punta (ovvero il caso, tra i tanti, che è finito tragicamente) di un iceberg rappresentato da un modello insostenibile di business. Bisogna costruire navi per portare i turisti, per viziarli non solo soddisfacendo i loro bisogni e desideri, ma addirittura anticipandoli. Assolutamente godibile è l’analisi dissacrante che 2013_09_23 immagine 03David Foster Wallace ne fa in ‘Una cosa divertente che non farò mai più’ (A supposedly fun thing I’ll never do again). Bisogna passare con le navi attraverso Venezia, perché ciò costituisce un’attrazione (se non passi da Venezia i turisti non comprano il pacchetto vacanza o peggio acquistano il viaggio da compagnie concorrenti). E dato che il costo per realizzare una nave da 4000 persone è poco più alto di quello di una nave da 3000, allora avanti con navi sempre più grandi (aumento i profitti incrementando di poco i costi ‘fissi’). E questo diventa una sfida tecnologica per i nostri cantieri navali, un vanto per la nostra industria, un volano per la nostra economia, ecc. ecc. Così comporta un aumento degli affari per i veneziani (tanti) coinvolti nel settore del turismo (porto a Venezia molti più turisti), molti dei quali saranno probabilmente contrari alla protesta di massa dei comitati ‘No navi’. E c’è da capirli. Una volta che hai messo in piedi tutto questo sistema è chiaro che alcune parti di questa ‘filiera produttiva’ diventano vitali per la sussistenza di settori specifici della nostra economia. Il business delle grandi navi, secondo gli studiosi dell’Università Ca’ Foscari, vale il 5,4% del PIL della città di Venezia (un milione di € al giorno). Ma è evidente che il modello non funziona. E non solo per il tributo tremendo di vite umane pagato per la sciagura della Concordia. Non funziona perché basato sulla rincorsa di desideri mai appagati definitivamente, che continuano ad autoalimentarsi come se il punto di soddisfazione venisse continuamente spostato in avanti: più comfort, più servizi, più cose da vedere, più lusso, più divertimento, e a costi sempre più bassi (e quindi più acquirenti e quindi navi più grandi, ecc. ecc.). E con un impatto ambientale (e nel caso di Venezia anche sull’architettura, sull’arte, sulla bellezza della città lagunare) sempre più insostenibile.

[Parbuckle salvage, or parbuckling, is the righting of a sunken vessel using rotational leverage].

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