
C’è un filo rosso che riguarda la tutela del valore dei nostri prodotti alimentari e che lega alcuni articoli letti sui quotidiani negli ultimi tempi. Comincio con l’invettiva di Aldo Grasso del 19.07.2015 sul Corriere della Sera “La burocrazia che ci educa sulle vongole”. – Lo sapete che l’Europa (Vi prego di leggere imitando il tono di Salvini) ci vieta di commercializzare vongole se di diametro inferiore a 25 mm?? E quant’è il diametro medio delle nostre vongole (le “poverazze”), quelle che popolano l’Adriatico? Bene, 22 mm. (- Lo sa Renzi questo? No, non lo sa – sempre con la voce di Crozza che imita Salvini, mi raccomando). Ma non è che brandendo la burocrazia europea qualcuno sta cercando di farci le scarpe? Omologando la biodiversità italica? Perché già ci stanno provando consentendo i formaggi prodotti da latte in polvere, ricordate? E il contenuto di succo di arancia minimo al 20% per le aranciate italiane (contro il 10% ammesso per gli altri paesi UE)? Quindi, non cercate di farci fessi, che non siamo un’Italia “alle vongole” (espressione coniata da Mario Pannunzio, in un editoriale del 1952 sul Mondo, che stigmatizzava il costume nazionale di far prevalere l’indolenza sull’impegno, insomma del “famose du spaghi”).
Ma il colpo di grazia ce lo dà nello stesso giorno Paolo Madeddu, sempre sul Corriere, con “Lo sfregio globale al made in Italy”. In pieno periodo EXPO emerge il fatto che i prodotti alimentari “italian sounding” (volgarissime imitazioni) che gli altri paesi immettono sul mercato ci succhiano un fatturato pari a 60 miliardi di euro, equivalenti a circa 300.000 posti di lavoro. La Coldiretti ha scelto di esibirli in una curiosa mostra presso il suo padiglione a EXPO. Curiosa, ma c’è poco da ridere, la gara per scipparci il buon nome dei nostri tesori culinari nazionali vede democraticamente insieme tutti i paesi più ricchi ed emergenti (non solo la Cina, come pensavate): USA, Australia, Canada, Germania, Regno Unito, Russia e inoltre Belgio, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Romania, Svezia. Ad esempio la quasi totalità dei formaggi italiani venduti negli Stati Uniti nasce in California o nel Wisconsin. Nello specifico dei marchi si va dal “Chianti bianco” (complimenti) svedese alla salsa “Palermo Mafia shooting” prodotta in Germania. Quousque tandem?
E alla fine è Curzio Maltese, nel Venerdì di La Repubblica del 10.07.2015, a chiarire come è cambiato il concetto di “troppità” battezzato da Giorgio Manganelli negli anni ’60. Allora avevamo troppo di tutto; oggi abbiamo troppo dello stesso. E’ qui che la biodiversità, la qualità dei prodotti Made in Italy potrebbero fare la differenza. Invece, mille marchi diversi (concentrati in un oligopolio) saturano il mercato, per poi di fatto propinarci sempre lo stesso prodotto. Parafrasando Charles de Gaulle che si lamentava come fosse impossibile governare un paese (la Francia) con 246 tipi di formaggi diversi, ecco che le multinazionali rispondono stordendoci con una finta varietà concentrata in realtà in pochissime scelte. E se fosse tutto frutto di un oscuro disegno globale? … 😦
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