Dopo il trionfo della nazionale germanica lo scorso 13.07 a Rio de Janeiro, i giornalisti si sono esercitati nell’analisi della vittoria in cerca di possibili chiavi di lettura. Il tentativo, come sempre accade è di capire regole che potrebbero essere replicate e analizzare il ‘caso studio’ Germania, che non è solo sportivo ma coinvolge tutto un sistema paese (da Löw alla Merkel, potremmo dire). Anche perché non è proprio così vero che “Il calcio è un gioco che si gioca in 11 contro 11 e alla fine vince sempre la Germania”, come diceva Gary Lineker. Tra gli articoli usciti c’è ad esempio un ‘Germania campione del mondo 2014. I 9 motivi (più 1) motivi di un trionfo’ del Corriere della Sera del 14.07.2014 di Tommaso Pellizzari.
Ci starebbe anche un ‘Le 10 lezioni di project management della vittoria della Germania ai mondiali’. Confesso, ci ho pensato, e non sarebbe un’analisi improbabile; butto lì al volo (non necessariamente in ordine di importanza): 1. Team work, 2. Organisation, 3. Time, 4. Changes (vedremo poi quali e quanti cambiamenti hanno portato in dieci anni la squadra tedesca a questo successo), 5. Business (l’evoluzione del movimento calcistico germanico è stata in questi anni anche una questione di ricavi e finanza, con brillanti risultati), 6. Engagement & Motivation (indispensabili), 7. Results orientation (conta prima di tutto), 8. Efficiency (come il gioco tedesco), 9. Programme orientation (un percorso lungo, chiaro e condiviso fino agli ultimi minuti della finale), 10. Personnel management (forse l’aspetto più importante, Löw è stato perfetto in tal senso).

C’è un episodio che secondo me simboleggia la filosofia di questa vittoria. È il goal dell’ 1-7 segnato dal Brasile nella disfatta con la Germania che ha distrutto qualsiasi record negativo della storia calcistica della Seleçao. Dopo 7 goal incassati con una facilità irrisoria quello è stato davvero poco meno di un goal ‘della bandiera’. Ma Neuer (ripeto, sul 7-1) si arrabbia con i suoi difensori per la distrazione che ha portato al goal avversario. Per quale motivo? Voleva umiliare sino al 90’ i maestri del calcio? Non credo. Mancanza di sportività? Neppure. Quella reazione di un infastidito Neuer (migliore portiere del mondiale) è la tenacia di una squadra che non ammette la sola idea della sconfitta e che lotta cercando l’eccellenza (e in tal modo onorando il gioco del calcio) anche sul 7-0 a favore. In quello scatto nervoso c’è il DNA di una squadra programmata per vincere (divertendo e divertendosi).

Ma torniamo all’analisi. C’è un bell’articolo di Luca Valdisserri, uscito sempre sul Corriere il 15.07, dal titolo ‘Löw e Klinsmann, due rivoluzionari che hanno cambiato il calcio tedesco’ (perché è Klinsmann, del quale Löw è l’assistente, che inizia la costruzione di questa squadra nel 2004). Un articolo, che riporto di seguito integralmente e che parla molto di innovazione (ancora una volta, il coraggio di cambiare sapendo di essere sulla strada giusta). E’ la ‘Germania che vince perché fa le riforme (nel calcio)’ altro titolo di questi giorni.
Rio de Janeiro – Tutto è nato nel 2014, con il rosso, un colore “positivo”. Quando Jürgen Klinsmann propose di cambiare il colore della seconda maglia della Germania – mandando in pensione il verde – lo presero per matto. Andava contro la tradizione e la regola. Peggio ancora quando impose lo psicologo dentro la nazionale. Ruppe un tabù. Non è vero che i calciatori sono giovani, forti e senza problemi. Anche tra loro esistono dipendenze da alcool o droga, omosessualità spesso nascosta, depressione. Rubert Enke, portiere, 8 presenze in nazionale, si tolse la vita il 10 novembre 2009, a 32 anni, gettandosi sotto un treno.

Per un po’ Klinsi si sentì come Don Chisciotte contro i mulini a vento. Si appoggiò al suo Sancho Panza, che di nome faceva Joachim Löw, detto Jogi, come l’orso del parco di Yellowstone. Jogi era stato da poco esonerato dall’Austria Vienna, il punto più basso della sua carriera di tecnico. Positività è vedere ogni esperienza come crescita. A chi gli ha chiesto se adesso, da campione del mondo, si voleva togliere qualche sassolino dalla scarpa, Jogi ha risposto: «Al contrario. Devo ringraziare il presidente dell’Austria Vienna. Senza di lui non avrei vinto un Mondiale storico. Siamo la prima squadra europea a conquistarlo in Sudamerica, nel Paese del calcio».
La strana coppia – con la poderosa mano di una Federcalcio collaborativa – ha cambiato il look e la storia della nazionale. Klinsi non ha vinto, perché ha cercato altre avventure dopo il Mondiale in casa del 2006, perduto in semifinale, ai tempi supplementari, contro l’Italia. Löw ha preso il suo posto e, dopo due terzi e un secondo posto tra Mondiali ed Europei, ha raccolto quello che era stato seminato: «La nostra forza è stata la continuità. Questo gruppo è stato insieme 55 giorni, ma su certe idee lavoriamo da dieci anni. Klinsmann aveva capito che la nostra caratteristica, la forza, non bastava più. Tutte le squadre, ormai, sono formate da grandi atleti. Serviva la tecnica. L’abbiamo trovata creando scuole di calcio di eccellenza».
La vittoria della Germania nel Mondiale 2014 è un segnale positivo per il calcio, da qualunque punto di vista. Tecnico: la squadra gioca bene, se non lo ha fatto anche in finale è perché la tensione, dopo tanti piazzamenti, era massima. Tattico: è un gruppo dove tutti si sacrificano. Economico: la nazionale è figlia di un sistema sostenibile e di un campionato, la Bundesliga, all’avanguardia in tanti settori. Comportamentale: i tedeschi sono stati professionali anche nei festeggiamenti, senza mai mancare di rispetto agli avversari […].
Essere positivi significa far partire Götze titolare ai Mondiali, poi fare altre scelte e infine mandarlo in campo nella finale, dicendogli: «Entra e fai vedere al mondo che sei più forte di Messi. Facci vincere il Mondiale!». Con una definizione quasi da santone, Löw ha definito Götze «il ragazzo del miracolo, perché può giocare in tanti ruoli e in tutti decidere una partita».

Nel calcio non esiste lo schema perfetto, altrimenti lo applicherebbero tutti e finirebbe sempre in pareggio. C’è stato il WM e il calcio totale, il catenaccio e la trappola del fuorigioco, il contropiede e il tiki taka, la difesa a uomo e quella a zona. Adattarsi al mondo esterno e non vivere in isolamento, però, aiuta sempre. «Prima di partire per il Brasile, come avevo fatto quattro anni fa in Sudafrica, ho detto ai miei giocatori: si va in un altro continente, a rappresentare 80 milioni di tedeschi. Dobbiamo farci onore ma anche divertirci, allenarci bene e sfruttare le occasioni per fare nuove esperienze. Ci hanno trattato in maniera squisita: dopo il 7-1 i tifosi brasiliani ci hanno applaudito in aeroporto e al rientro in ritiro. Per questo dico: grazie, Brasile!».
Don Chisciotte e Sancho Panza. Klinsi e Jogi. Li avevano presi per matti.
[Luca Valdisserri © Corriere della Sera, 15.07.2014]