E’ tempo di classifiche (vedi anche i precedenti post sulla sostenibilità delle nazioni e sui ranking delle università) e arriva anche la classifica dei paesi più innovativi, il Global Innovation Index 2013, elaborato come ogni anno (questa è la 6^ edizione) dalla Johnson Cornell University (scuola di business di New York), dalla scuola di business francese INSEAD e da WIPO, World Intellectual Property Organization (agenzia specializzata delle Nazioni Unite), con il supporto tecnico di Booz & Company, CII (Confederation of Indian Industries), du e Huawei . Come al solito, al di là della pura e semplice classifica e importante capire quali sono i parametri utilizzati per la valutazione e quali sono i trend di evoluzione delle nazioni.
Il tema di quest’anno ‘Local Dynamics of Innovation’ riflette l’importanza della concentrazione locale e integrata di università, aziende, fornitori specializzati di beni e servizi e agenzie promotrici dell’innovazione. Ci si riferisce in sostanza ancora alla logica dei Cluster introdotta da Michael Porter (The Competitive Advantage of Nations, 1990), che sembrano in effetti avere un impatto positivo sull’aggregazione, in un’area concentrata, di talenti, know-how, laboratori di ricerca e aziende produttrici, spesso specializzate in mercati di nicchia. Gli esempi evidenti di queste aree sono California, Baden-Württemberg, l’area intorno a Seoul, la provincia di Guangdong in Cina, Stredni Cechy nella Repubblica Ceca, la regione di Mumbai, Tel Aviv, São Paulo, ecc. Ci sono delle nuove aree di sviluppo in tal senso anche in nazioni emergenti, come il Kenya, la Tanzania, la Colombia, il Vietnam. Pare che in nessun momento storico come questo la spesa globale in Ricerca e Sviluppo (R&D) sia stata così alta e soprattutto l’innovazione così distribuita nel mondo.
Il rapporto di quest’anno mette in chiaro i fattori che hanno portato all’eccellenza di questi ‘hub’ dell’innovazione: il ruolo delle grandi aziende che hanno fatto da battistrada, la disponibilità di fondi per lo sviluppo delle start-up, l’esistenza sul territorio di incubatori e programmi di trasferimento tecnologico (technology transfer), l’importanza capitale di network locali, interregionali e globali che hanno consentito l’interazione dei cluster di innovazione. Nella classifica primeggia decisamente (come nel 2011 e 2012) la Svizzera (dato che potrebbe suonare come sorprendente, associato agli stereotipi mucche, orologi, cioccolato e banche), con uno score di 66.59/100, seguita dalla Svezia (61.36), che conferma analogamente la posizione dei due anni precedenti, dal Regno Unito (61.25), in salita dal 10° posto del 2011 e dal 5° del 2012, in un ranking che ai primi dieci posti vedi in sostanza i seguenti paesi.
Il GII 2013 è basato su due sub-indici, l’Innovation Input e l’Innovation Output, che poi vengono mediati per dare l’indice complessivo. L’Innovation Input si basa su 5 macro indicatori relativi alle istituzioni, al capitale umano e di ricerca, alle infrastrutture, alla maturità del mercato e del business. L’Innovation Output invece è calcolato attraverso altri 2 macro indicatori che rappresentano la creazione e la diffusione della conoscenza e la creazione di asset tangibili (beni e servizi) e intangibili (creatività). Inoltre l’Innovation Efficiency Ratio (indicatore di efficacia molto interessante) è il rapporto tra l’Innovation Output e l’Innovation Input, in sostanza spiega quanto l’output di innovazione per ogni nazione deriva dagli input. In questa speciale classifica capeggia Malta, seguita da Kuwait, Svizzera e Ungheria. Per ognuna delle nazioni viene poi allegata una scheda con il riassunto degli indicatori economici e di innovazione.
E il nostro bel Paese? L’Italia appare alla 29.a posizione (era 36.a nel 2012), con un indice 47.8, preceduta per capirsi da Germania, Francia, Austria, Spagna e persino da Malta e Cipro. Siamo in sostanza nella terza fascia della classifica, che mette in fila 142 nazioni (in fondo alla classifica Madagascar, Sudan e Yemen, con un punteggio di 19.32) corrispondenti al 95% della popolazione e al 99% del PIL mondiale. Si potrebbe obiettare che l’indice di innovazione non sia poi direttamente collegato allo sviluppo economico (potremmo ad esempio nel caso dell’Italia essere competitivi puntando definitivamente e in modo ben organizzato su settori tradizionali quali turismo, arte, architettura, archeologia, storia, gastronomia e cultura in generale) ma è chiaro che leggendo i primi posti della classifica (paesi anglosassoni, Scandinavia, le nuove tigri asiatiche – Hong Kong e Singapore) ci facciamo un’idea di quanto la competitività passi decisamente attraverso una spinta innovativa.

Tra i punti deboli della situazione italiana vengono evidenziati: la tassazione, la difficoltà nella formazione del PIL, l’accesso al credito, la sottocapitalizzazione delle aziende, il tasso di crescita del PIL per lavoratore (in sostanza la produttività) e una certa difficoltà nello sviluppo e nell’organizzazione dei business ICT. Andiamo bene invece per quanto riguarda: scolarizzazione, infrastrutture in genere (anche sotto il profilo ambientale), il credito domestico in rapporto al PIL, l’impiego di personale ad alto tasso di conoscenza, lo sviluppo dei cluster, i servizi informatici e commerciali e gli output in termini di conoscenza e tecnologia (dall’impatto della conoscenza al numero di aziende con sistemi di gestione qualità certificati). Siamo anche in buona posizione per il numero di pagine consultate in Wikipedia … insomma, per lo meno un popolo che studia.