I successi di Finlandia, Danimarca, Svezia e Norvegia. Hanno attuato l’Agenda di Lisbona e hanno avuto ragione. Riporto L’articolo integrale di Giuseppe Sarcina su La lettura del Corriere della Sera del 10.02.2013
Negli anni Novanta i funzionari del governo norvegese spiegavano così agli ospiti europei che cosa fosse la Scandinavia: «Gli svedesi sono come i tedeschi; i finlandesi somigliano ai francesi e i norvegesi agli italiani». Allora il blocco del Nord viveva la peggiore crisi del dopoguerra. Economica, certo: il reddito dei cittadini svedesi, per esempio, era inferiore a quello degli inglesi e degli italiani. E poi politica, culturale, perfino esistenziale. Il modello socialdemocratico scandinavo, che aveva brillantemente retto agli anni della contestazione, sembrava pronto a farsi spazzare via dal ciclone liberista, reaganiano- thatcheriano. Lo scrittore finlandese Arto Paasilinna aveva anticipato, ridendoci sopra, quest’atmosfera di disincanto, raccontando storie di fuga, di isolamento (per tutti, L’anno della lepre, 1975, pubblicato in Italia da Iperborea nel 1994). Oggi, nessuno si offenda, molti italiani farebbero carte false per vivere come i norvegesi e molti francesi come i finlandesi (i tedeschi fanno storia a parte). Sono loro i primi della classe. Per cominciare, Finlandia, Danimarca e Svezia (la Norvegia non fa parte della Ue) hanno preso sul serio l’«Agenda di Lisbona», il piano pomposamente lanciato nel 2000 che avrebbe dovuto trasformare il Vecchio Continente nell’area più competitiva del mondo (oggi superato da Europe 2020 n.d.r.). Per tutti gli altri, con l’eccezione della Germania, si è visto come è andata a finire. Gli scandinavi, invece, hanno raggiunto, spesso con largo anticipo, gli obiettivi legati alla ricerca, all’innovazione, alla formazione. E ora costituiscono il «prossimo super modello», come ha titolato due settimane fa l’«Economist», mettendo in copertina l’immagine di un «vichingo» con tanto di corna e dedicando ai «Paesi nordici» uno speciale di 14 pagine.
Come hanno fatto? Detto in una parola, sono corsi incontro al futuro (e i giovani prima di tutti) senza aspettarlo seduti su venerabili, ma ormai logore, concezioni e strutture politico-istituzionali. Hanno cominciato smontando e rimontando il modello di welfare, proprio come se fosse un mobile Ikea, il concentrato della nuova Svezia, il Paese che ha ridotto in vent’anni la percentuale della spesa pubblica sul prodotto interno lordo dal 67% al 49%. Da Stoccolma lo Stato vegliava sui cittadini, proteggendoli, anzi accudendoli «dalla culla alla tomba». Era il piccolo paradiso in terra di Olof Palme, leader socialdemocratico epocale (assassinato il 28 febbraio 1986). Ora, più pragmaticamente, il governo conservatore guidato da Frederik Reinfeldt, salito al potere nel 2006 (dopo 65 anni di egemonia socialdemocratica) sostiene ancora i disoccupati, ma, per esempio, non si sobbarca interamente la gestione del sistema scolastico. Le famiglie possono scegliere liberamente in quale scuola mandare i figli. Lo Stato si occupa di quella pubblica e fornisce dei «voucher», dei buoni, per pagare l’iscrizione negli istituti privati. Anche la Danimarca adotta lo stesso metodo, che nasce da un’idea dell’economista americano Milton Friedman, il padre del monetarismo, premio Nobel nel 1976 e autore di volumi come Capitalismo e libertà, nei quali si raccomanda il ridimensionamento del ruolo pubblico nella società.
Chiaro, non sempre le cose vanno bene: l’esperienza universale ha dimostrato che la privatizzazione, sia pure parziale, non garantisce, di per sé, risultati efficienti. Secondo uno studio di Anders Bohlmark e Mikael Lindahl, in Svezia le scuole pubbliche continuano a funzionare meglio di quelle private. Sembrerebbe confermarlo anche la variante finlandese: obbligo scolastico e corsi statali uguali per tutti fino a 16 anni. Poi si sceglie se prepararsi per l’università o per un lavoro. I maestri e i professori finnici non sono pagati molto, ma godono di larga autonomia e di un prestigio sociale indiscusso. Risultato: i quindicenni finlandesi sono in testa nella graduatoria mondiale dei test Pisa (Programme for international student assessment, promosso dall’Ocse), davanti ai «mostri» sud coreani, agli australiani e ai tedeschi (Italia praticamente non pervenuta).
Certo, tutto è più facile quando si governa una popolazione che, tra Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca arriva a 26 milioni di abitanti: neanche la metà degli italiani. Anche se dentro ci trovi tre sovrani, quattro monete (solo la Finlandia ha l’euro) e un dubbio irrisolto: la Scandinavia è parte integrante dell’Europa o, come la Gran Bretagna, si prepara a un futuro da battitore libero, dentro o fuori secondo convenienza?
Ma è il dinamismo dell’economia che spinge i nordici a ragionare su scala mondiale. Più che i grandi gruppi del passato — la svedese Ericsson, la danese Danisco, la finlandese Nokia — ora sono le medie imprese a guidare. Alcuni casi: in Danimarca operano la Novo, azienda farmaceutica che produce metà del fabbisogno mondiale di insulina, e la Oticon, leader globale degli apparecchi acustici. Sono danesi anche le 200 società che forniscono più di un terzo del mercato planetario di turbine eoliche. Ma la cosa più interessante è che la rinascita economica è trainata dai giovani. La Svezia e la Finlandia, in particolare, stanno vivendo una «rivoluzione dei talenti», una sorta di contestazione al vecchio establishment economico che, anziché produrre marce di protesta, si traduce in una frenetica attività imprenditoriale. Sono ragazzi, racconta l’«Economist», che appendono in camera il poster di Friedman con lo stesso entusiasmo con cui i padri attaccavano l’immagine di Che Guevara. Sono «giovani-vecchi»? Può darsi. Tuttavia in questa atmosfera vagamente californiana sono nate miriadi di imprese. Solo che al posto dell’isolato e disadorno garage di Bill Gates, qui ci sono laboratori finanziati dal governo, frequentati da professori universitari, finanzieri e soprattutto giovani talenti formati dalle scuole di design, informatica, robotica e così via.
Un esempio è la «Start-up Sauna», creata dagli studenti della Aalto University, appena fuori Helsinki (Aaltoes – Aalto Entrepreneurship Society – è la più attiva comunità di studenti avviati all’imprenditorialità, con programmi continui di internship in aziende della Silicon Valley o New York, ‘Startup Life‘). I risultati sono visibili. In Svezia, a fianco di Ikea e Tetra Pak o delle antiche dinastie industriali, non si può prescindere da facce nuove come Niklas Zennström, cofondatore di Skype. In Finlandia la Rovio Entertainment è diventata un fenomeno mondiale, dopo che 600 milioni di clienti hanno scaricato il video «Angry birds», versione moderna della batracomiomachia, solo che non si scontrano rane e topi, ma uccelli e maiali.
Il segreto del Nord, dunque, si chiama lavoro e valorizzazione (non emarginazione) dei giovani talenti, ragazzi e ragazze con pari opportunità. Questa è la base, poi viene la cura ossessiva dei conti pubblici e dell’efficienza dei servizi ereditati dalla socialdemocrazia. Ovviamente esistono anche contraddizioni. La Svezia è il Paese più investito dall’immigrazione. Nel 2012 Stoccolma ha ricevuto 44 mila richieste d’asilo: un’enormità se paragonate alle 60 mila della Francia e alle 64 mila della Germania. L’integrazione è lenta, difficile. I nuovi arrivati si insediano, o meglio si barricano, nei vecchi quartieri operai. Così le palazzine di Rosenborg, costruite per i lavoratori delle industrie di Malmoe sono passate agli immigrati, esattamente come accaduto a Feyenoord, dove vivevano i portuali di Rotterdam o, per venire a noi, nelle periferie di Torino e, in parte, diMilano. Da questo punto di vista non c’è molta differenza rispetto al resto d’Europa. E ai vichinghi, naturalmente, non piace.
[Giuseppe Sarcina, La Lettura | Corriere della Sera 10.02.2013]