Tecnologia e innovazione, i Paesi europei non dialogano tra loro. Riporto l’articolo integrale di Serena Danna sul Corriere della Sera del 09.02.2013., che fa riferimento al lavoro dell’Imt di Lucca pubblicato su ‘Scienze‘. I centri di ricerca e sviluppo europei comunicano prevalentemente all’interno dei confini nazionali, senza grandi differenze rispetto alle collaborazioni in area OCSE, che però non beneficiano dei cospicui budget previsti dall’UE per i programmi transnazionali. Si applica a livello centrale una sorta di ‘manuale Cencelli’ della ripartizione dei fondi europei, con una polverizzazione delle competenze. Sarebbe molto più efficace una distribuzione in base alla competitività e al merito, il che porterebbe ad una polarizzazione dell’innovazione in alcune aree geografiche specifiche.
L’analisi fatta trova un’interessante riscontro nel grafico seguente, che riporta i risultati del documento ‘Foreign born scientists: mobility patterns for sixteen countries‘ di Chiara Franzoni, Giuseppe Scellato e Paula Stephan (National Bureau of Economic Research) sulle percentuali di ricercatori in ingresso/uscita nei singoli paesi. Se ne ricavano ulteriori riflessioni sulla competitività delle nazioni.

Nonostante gli sforzi e la retorica comunitaria sul versante Ricerca & Sviluppo, il Vecchio Continente rimane «una collazione di sistemi nazionali di innovazione che non comunicano». È questo il quadro che emerge dallo studio dell’Institute for Advanced Studies (Imt) di Lucca appena pubblicato sull’ultimo numero della rivista accademica «Science». La ricerca, coordinata da Fabio Pammolli e Massimo Riccaboni, e frutto di una collaborazione tra economisti e fisici, ha preso in esame il livello di integrazione e di mobilità dei ricercatori europei all’interno della Ue tra la fine degli anni Ottanta e il 2010. Attraverso l’analisi di grandi strutture di dati (Big Data), il team di Lucca ha analizzato due milioni e 400 mila brevetti e 260 mila pubblicazioni accademiche, classificandoli per microregioni di riferimento e incrociandoli con diverse reti di integrazione: nazionalità e mobilità dei co-inventori e dei partecipanti ai brevetti, collaborazioni tra le istituzioni nelle diverse regioni, interscambi di citazioni dei brevetti.

L’analisi dei cluster – che fotografa l’Europa della ricerca come un contenitore di un sottoinsieme di nodi – mostra che lo scambio tra gli agglomerati avviene all’interno delle singole nazioni: con l’eccezione dei poli di Hannover e Copenaghen che integrano comunità di ricercatori provenienti da diversi Paesi Ue, i centri di ricerca e sviluppo europei comunicano solo nei confini statali.
Il team di Pammolli e Riccaboni ha preso inoltre in esame, attraverso un’analisi econometrica, il trend di crescita dell’integrazione paragonandolo a quello di altre aree del mondo. Anche stavolta non ci sono buone notizie: «Gli scambi accademici tra i Paesi dell’Unione Europea – spiega Pammolli – non sono cresciuti più velocemente di quelle tra Paesi extracomunitari. Non c’è alcun segnale che la collaborazione cosiddetta cross-border sia stata più forte nella Ue rispetto agli altri Paesi, né tantomeno che lo sarà».
Eppure a cominciare dal 1998 con l’introduzione del «V Programma quadro per azioni comunitarie di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione» fino al Trattato di Lisbona del 2000, l’Unione ha fatto di integrazione e innovazione – e del loro finanziamento – un mantra per gli Stati membri. «I propositi di Bruxelles per superare i confini nazionali, promuovere finanziamenti competitivi e fare dell’Europa un sistema integrato di innovazione – sottolinea l’economista – non hanno avuto esiti positivi: non stiamo facendo passi avanti verso l’innovazione».

Se è vero che sulla mancata integrazione della ricerca pesa quella più generale della politica e dell’economia, la crisi economico-finanziaria, al contrario, non ha avuto un ruolo significativo nella mancata sinergia: «La frammentazione del sistema comincia molto prima della crisi e persiste nel tempo», spiega il direttore dell’Imt. Fuori dalla lista dei colpevoli anche il budget Ue dedicato a Ricerca e Innovazione: «I Paesi dell’Ocse – sottolinea Pammolli – non hanno un finanziamento comune per la ricerca né programmi per l’educazione transazionale. Eppure, come abbiamo visto, collaborano allo stesso modo dei Paesi comunitari».
Il vero responsabile va ricercato in quella che Pammolli chiama «competizione concentrata»: «In Europa vige il manuale Cencelli della ripartizione dei Paesi per ottenere i fondi: piuttosto che da esigenze di collaborazione reale, la selezione di ricercatori di diversi Paesi comunitari dipende dalla possibilità di ottenere finanziamenti». Più nazionalità europee hai nella squadra, più possibilità hai di ottenere un finanziamento. «Bisogna passare – aggiunge Pammolli – da una integrazione concentrata a una integrazione competitiva». Tuttavia, secondo gli autori dello studio, l’Europa sta cominciando a imparare dai suoi errori. L’European Research Council, ente comunitario nato nel 2007 per finanziare progetti di ricerca all’interno della Ue, potrebbe rappresentare un nuovo inizio: «Le assegnazioni si basano davvero su competitività e merito e, aspetto molto importante, sono “portabili”: significa che si può lavorare nell’istituto che offre le condizioni migliori di volta in volta senza restare legato a quello di provenienza». L’economista è convinto che questa direzione porterà a una polarizzazione dell’innovazione nel Continente: «Il rischio è che tutto si concentri tra Zurigo, Cambridge, Monaco di Baviera, Berlino». Tutto sommato sarebbe già un inizio.
[Serena Danna, Corriere della Sera 09.02.2013]